Si assiste sempre più spesso all’omaggio, rivolto da musicisti dell’area jazz, a storici personaggi che li hanno preceduti. Ellington, Monk, Mingus, Coltrane, Kurt Weill, per non parlare di Piazzolla, sono a volte sottoposti a un autentico tiro di fila. Un fenomeno ormai talmente diffuso, che a volte fa sorgere il dubbio di un uso strumentale di nomi celebri per mettere in evidenza il proprio lavoro tra le pieghe di un mercato in costante saturazione. L’omaggio rischia così di diventare un pretesto, un modo come un altro per eleggere un padrino utile alla propria causa.
Nel caso di Sergio Orlandi e di questa sua opera prima, il dubbio viene fugato dall’oggetto dell’omaggio: il compositore catalano Federico Mompou, scomparso nel 1987 all’età di novantaquattro anni; certamente non uno dei nomi più in rilievo del Novecento musicale. Lo stesso trombettista ha incontrato quasi casualmente la musica di Mompou, restandone fortemente impressionato. Forte è l’atteggiamento che sottende tutto il progetto: “Non ho pensato a me stesso in questo disco, ma al progetto. Non ci sono virtuosismi, si è cercato di fare musica, una musica che arriva da un gruppo ispirato ad un autore”. Un compositore che tiene a battesimo il primo disco di un giovane musicista e che agisce su di lui, seppure indirettamente, come un maestro di vita. Lo esorta a non mettere in rilievo capacità virtuosistiche, a penetrare il senso profondo della musica. E tutto questo senza parole, ma attraverso la forza emanata dalla propria musica. Una forza evidentemente di carattere anche morale, al di là del bell’impulso lirico in essa contenuto. Tutto questo è in evidenza già dal primo brano, “Preludio N° 9”. La pagina di Mompou, nella cui seconda parte appare la versione originale interpretata da Lorena Portalupi, è interpretata con la delicata pregnanza di chi vuole aderire allo spirito profondo della musica e funge da preludio a un album che si sviluppa tutto su questa unità stilistica e di ispirazione.
Una scintilla fatta scattare da Mompou, se è vero che il disco, come puntualizza Orlandi, non rivela il suo modo consueto di suonare, ma quel particolare momento. Ed è significativo che un giovane solista scelga di pubblicare la sua prima opera “tradendo” se stesso a favore di qualcosa che è un po’ di più: un progetto, un’idea. Tutti i musicisti sono immersi in questa bella sintesi di lirismo e intensità. Contribuiscono all’album anche sotto il punto di vista compositivo, mostrando sensibile coerenza al progetto. Unico brano composto prima di questo progetto è “Spike”, del pianista Erminio Cella, un esempio di post-bop dalla raffinata costruzione armonica. Inutile tessere le lodi dei singoli componenti, sia sotto il punto di vista solistico che per gli apporti compositivi: l’ascolto attento è il migliore riconoscimento per musicisti che sanno aderire a un progetto. Per quanto riguarda Orlandi poi, in questo caso i riferimenti più vicini sembrano essere la morbida eleganza (spesso al flicorno) di Art Farmer, Kenny Wheeler (cui è dedicato il brano “Song For Kenny”) e Tom Harrell. Ma il trombettista ha pure altre frecce al suo arco, per dimostrare le quali lo attendiamo già alla prossima prova.
Giuseppe Segala